(tratto da "L'uomo e il Dragun: Una storia camogliese" di Silvio Ferrari - Edizioni De Ferrari - 2005)
Conversazione con Ido Battistone
Ido Battistone: ci ha lasciati nel 2005/Ido Battistone: he left us on 2005
Ido Battistone mantiene le movenze e le energie dell'eroe omerico, anche se si misura da tempo con la guida del suo camioncino da artigiano piuttosto che col timone della sua celebre barca e adopera l'abilità delle sue mani più sulle superfici dei telai e degli infissi di alluminio o delle persiane da rifare che sulla scorrevolezza delle funi e della tela delle vele. |
Il suo viso si è fatto “antico” perché, in una civiltà che maschera ed altera (o vorrebbe comunque farlo) i segni dell'età e le tracce delle giornate trascorse, egli sembra volutamente accentuare l'intensità (e talvolta la stanchezza) dello sguardo e mantiene la tensione del suo modo di interloquire, come in un permanente lavoro di sostegno della sua mimica, per dare forza al contenuto delle sue parole. Così l'ho visto e l'ho ascoltato abbastanza a lungo, nel corso degli incontri che abbiamo deciso di avere, per poter ragionare con calma degli anni della sua vita e delle sue imprese veloci e faticose come le palate dei rematori del Dragun. Abbiamo conversato nel suo laboratorio, fra arnesi prevedibili e tecnicamente necessari, ma circondati in modo non meno evidente dalle immagini della sua “stagione incomparabile”: le foto della gioventù e quelle della maturità, sempre ritratto alla guida del barco, fra sartie e remi, fino alla tenerezza della sua eredità umana più recente: il sorriso della sua figlia minore che gli somiglia in modo biologicamente sbalorditivo, come un capello all'altro, nell'impianto delle loro fronti che sembrano disegnate dallo stesso ritrattista. Dopo Giovanni Battista Arata e Lorenzo Viacava, Ido è il terzo camogliese per me importante, con cui mi succede di parlare di tutto ciò che possono dirsi due persone adulte. Ma, rispetto agli altri due, ho l'impressione di trovarmi di fronte ad una personalità più complessa e anche più immersa nella propria dimensione di protagonista, nella quotidianità come nella eccezionalità del ruolo svolto.
Sono nato a Camogli, allora si nasceva in casa, in Salita San Fortunato, a ridosso del porto, il 7 marzo del 1938. Mia madre si chiamava Ada Garavaldi, era della Spezia, nata nel 1909, aveva perso i genitori piccolissima ed era stata adottata da una maestra. Sempre alla Spezia, si era sposata a vent'anni, con Gino Battistone di Portovenere, che aveva solo un anno più di lei. Avevano avuto subito una bella sequenza di figli: Margherita, Franco (a battesimo Vittorio), Anna Maria, Luigi (Gigi) che è nato nel '36; poi, per seguire meglio l'attività del padre, e anche la sua – erano palombari – si trasferirono a Camogli. E infatti io sono il primo a nascere qui, dopo sono venuti ancora Adriano e Stefania.
Cosa puoi dire di quel periodo e della figura di tuo padre?
Mio padre è morto che aveva 52 anni, presto, doveva aver avuto qualche difficoltà a lavorare per ragioni… politiche. Di famiglia dovevano essere “antifascisti” o forse era solo uno che non si piegava facilmente. C'è stato un tempo, durante gli anni di guerra, che ha dovuto fare… quello che poteva e ricordo che poi ha lavorato anche a rifare il ponte di Recco. Mia madre è morta a ottant'anni e dunque posso dire che la conosco meglio. Dell'infanzia ricordo la povertà, e del resto, insieme con altri, mi avevano messo all'orfanotrofio e le mie sorelle erano ospitate alla Casa di Provvidenza. Ma io sopportavo male quella situazione e una volta devo essere scappato di notte, per tornare a casa.
E del tempo della scuola?
Ero con tanti che sono rimasti poi miei amici per sempre, ma anche con ragazzini più giovani, allora era così. Comunque ho una fotografia della prima elementare e si possono riconoscere quasi tutti.
E dei maestri?
Almeno tre ne ho avuto: Barbagelata, Mortola e Elena, ma non ricordo qualcosa di particolare, o meglio, una volta avevano letto ad alta voce un mio tema in classe, ma io mi ero spaventato. Però mi sembrava di capire che avevo qualche capacità, specialmente se c'era da fare qualcosa in gruppo, gli altri mi stavano a sentire.
E fuori dalla scuola?
E appunto, ti dicevo, succedeva anche fuori, al tempo delle bande, quando proponevo di fare cose che erano frutto della mia fantasia, ma sapevo anche costruire qualcosa con una certa abilità manuale. Per esempio avevamo fatto una zattera, con delle cassette e volevamo fare una spedizione… contro Recco. Ti dico, una “barca” fatta con casse che prima contenevano del sapone. E poi la guerra con bande di ragazzi più grandi. Una volta ho fatto persino una gita con la scuola, a Borgo Taro.
Quanto sei rimasto a scuola?
Fino a undici anni, e a tredici riuscivo già a portare 70 chili sulle spalle. Poi ho cominciato a fare qualcosa, come mettere il pesce nelle cassette, lavarlo e portare il pescato fino a Ruta…
Me le raccontava anche “Napoli” queste cose…
E io per qualche tempo, di “Napoli” sono stato il garzone. E portavo a casa dei soldi, diciamo 300 lire al giorno. Mi pare di ricordare che venivano bene, anche e soprattutto al tempo della malattia di mio padre.
Ripensandoci, ti sembrava una vita ingiusta, ti veniva un impulso di ribellione?
No, nessuna ribellione, mi ero adattato facilmente, anche quando ho cominciato a fare il panettiere, prima a Recco, e poi a Camogli, da Oneto, in via Garibaldi, con mio fratello Franco. I primi pantaloni lunghi [mi indica una foto nel laboratorio] me li sono comprati a quel modo, cioè li ho guadagnati così. Quella è una foto che mi ha fatto Ferraris, il titolare dello studio di via Garibaldi. Era bravo quello lì.
Quando tuo padre era malato, lavorava tua madre?
Mia madre andava a lavare la biancheria degli altri fino al torrente e qualcuno di noi, figli, l'accompagnava portando le “baie”, dove c'era dentro la roba. Però quando potevo togliermi di lì, le mie aspirazione erano: andare a nuotare e raggiungere i boschi…
E in chiesa non andavi?
Sì, quando c'era freddo! Mi ricordo del parroco Don Macciò e mi ricordo bene che il vestito della comunione me lo prestò qualcuno dei Martini, quelli del pesce…
E la prima ragazza, sei stato uno precoce anche in questo?
Veramente, era una ragazza di Santa Margherita. Ti spiego, con qualche lira andavamo a Santa ad affittare delle biciclette. Lì avevo visto una ragazza, un bel sorriso, ma, si capisce, poi l'avrò vista due o tre volte e mai più.
Sei andato a militare?
Sì a Napoli, e prima a Roma. Ero nella squadra di nuoto della Marina. Veramente c'era uno che mi aveva proposto di andare a fare l'attendente a un pezzo grosso. Ma era una cosa che non mi andava. Sono finito persino in cella per ribellione!?!
Ma avrai visto un po' di mondo, a Napoli?
Se è per quello, sempre con la nave dov'ero imbarcato, siamo andati fino a Ischia, a Capri, e una volta anche a Malta…
Ma Napoli come te la ricordi? Era la fine degli anni '50, no?
Mi era “scaduta” per la gran miseria che c'era. E quando ero a militare mi arrivò la notizia della morte di mio padre [10 dicembre 1960] e venni a casa.
Ma la vita tua, da adulto, da persona che decide da solo, quando comincia?
Dopo il militare. D'estate avevo conosciuto una tedesca – non quella che pensi tu, un'altra – e sono andato a Monaco di Baviera a fare un esame al Conservatorio…
Come al Conservatorio?
Sì, per cantare – potevo appendere il cappello al chiodo ma non l'ho fatto – e invece di tedesca ne ho conosciuto un'altra e l'ho sposata: era Sybilla.
[Ido Battistone sposa il 28/10/1963 con rito civile Sybilla Pischke, nata nel 1939 e abitante a Kaufbeuren, non lontano da Monaco. Verificato allo stato civile del Comune di Camogli] e poi, dopo che m'è nata una bambina, Anja [20/8/1965, a Kaufbeuren. Stessa procedura].
Siamo venuti a vivere a Camogli e mi sono messo a fare il bagnino, prima al Miramare e poi al Lido.
È lì, al Lido che venne a cercarmi un signore, il signor Vinicio, per propormi di aiutarlo a costruire una barca di 13 metri. Guarda, c'è la documentazione, abbiamo fotografato tutta l'operazione nel cantiere dello scaletto di Camogli [c'è una foto in cui riconosco il primo dei tre fratelli Beggiato]. Quella è stata davvero la svolta. Poi sono andato a Bocca di Magra per costruirne una di 17 e poi a Trofarello, vicino a Torino, dove mi trasferii vivendo in una roulotte; lì ne mettemmo su una di 22.
Ma perché queste persone cercavano proprio te, sulla fama di quale competenza?
Guarda, è una questione di abilità; a me dovevano solo dire quello che volevano, io poi lo eseguivo con logica.
È una parola…
Mino Viacava, il maestro d'ascia di Portofino, mi disse una volta: “Riesci a fare quello che nessuno ti ha insegnato”.
Ti è cambiata la vita anche sul piano economico?
Sì, di colpo guadagnavo anche da 250.000 fino a 1.000.000 di lire. Quando da bagnino, e solo per la stagione, più in su di 300.000 non andavo.
[Solo per fare un raffronto “interno”, nel 1967, dunque solo un anno dopo i tempi a cui si riferisce Ido, al mio primo stipendio da “docente” al Nautico di Camogli, portai a casa un assegno da 114.000 lire].
Tutto merito tuo, o Sybilla ha costituito un sostegno importante alla tua intraprendenza? E una grande capacità di corrispondere alle tue “stravaganze”. Me lo ricordo ancora quando si parlava a Camogli della tua scelta di andare… in viaggio di nozze alla grotta della Cala dell'oro, fra Punta Chiappa e San Fruttuoso!
Ti ho già detto che avevo conosciuto Sybilla in tempi difficili, in Germania, e sono il primo a riconoscere la sua capacità di adattarsi al mio modo di vivere e pensare alle cose, ma sono anche dell'idea che ha fatto quello che ha condiviso con me, perché le piaceva. Del resto è come quando andammo a Barcellona a piedi…
A piedi, via, non esageriamo…
Sì, a piedi, per tanti tratti, puoi chiederlo a Gian Mario Capato, che c'era anche lui. E certo anche con dei passaggi e dei tratti percorsi anche sui carri dei contadini, soprattutto attraverso i Pirenei… mi ricordo anche i posti: Cerbère e Port Bou…
Ma con che mezzi di sussistenza?
Eh, qualcosa avevamo, ma poco, e io adottavo qualche stratagemma, facendo qualche guasconata, come quella di andare dai contadini sulla strada del percorso dicendo “ho la moglie incinta, datemi qualcosa da fare…”, poi finiva che ci davano da mangiare gratis e non volevano che facessimo niente. Però anche la stagione delle bravate passò e tornammo a Camogli a vivere nel Caruggio Grande, di fronte a dove oggi c'è l'ingresso interno di “Fiorella”, quella della pasta fresca.
Se ricordo bene, non per molto tempo?
Beh, quando mi vennero a cercare gli allestitori Magrini e Giorgetti, ci trasferimmo di nuovo a vivere, sempre in roulotte, per anni a Trofarello e poi ad Alpignano e Sybilla, da vera tedesca, mi è sempre venuta dietro.
Ma quando nasce l'idea del Dragun?
Prima. Io il “relitto” di quello che sarebbe diventato il Dragun, lo comprai a Recco, per 300.000 lire. Era un'occasione di cui mi avvertì Berto Pisone che, a sua volta, doveva averlo saputo da qualcuno. Era una lancia di salvataggio che, lo ridico, qualcuno aveva portato a Recco. Andai a vederla, la prima volta, perché era materialmente sistemata all'altezza del cimitero di Recco. E decisi che bisognava portarla a Camogli.
Ma per farne cosa?
Era un sogno che avevo fin da bambino: volevo fare una barca che mi permettesse di continuare a divertirmi anche da grande.
Ma come potevi realizzare una cosa del genere da solo?
No, non da solo; se ne cominciò a parlare con degli altri, faccio qualche nome: Sergio Ferrando, i due fratelli Carina, Gianni Gherardi, Adriano Amato, Natty Clausi. Che avevo portato a vedere la barca in quelle condizioni: tutta “scivertata” e col dritto di prora rotto. Intanto ne avevamo parlato anche in pubblico, dai fratelli Costa, quelli del ristorante “Da Rosa”, nell'occasione in cui offrivano da mangiare ai loro clienti, una volta all'anno. Avevamo perfino proposto una colletta…. Poi chiamammo il maestro d'ascia Giuse Viacava per un primo “consulto” e gli demmo 5.000 lire e infine, con del fil di ferro per imbragarla e con un carrello preso in prestito da Dria Riotti, al mattino presto, tirata da una jeep, la portammo a Camogli, facendola arrivare in piazza Colombo, fra lo stupore e le minacce dei vigili, anche se, come gruppo di persone che ti ho nominato, eravamo già noti, perché l'anno prima avevamo bruciato l'äse (l'asino) della tonnara*, sulla spiaggia, per la ricorrenza di San Fortunato.
E poi?
La barca rimase in piazza fino al pomeriggio, quando riuscimmo a deporla sulla spiaggia.
E i commenti, in quelle ore, ci sarà pur stata qualche reazione?
E i commenti te li puoi immaginare, in un posto come Camogli: incredulità e ironia. Ma io rispondevo per le rime: “fate tanta lingua, però poi c'è voluto un foresto per portare qua una barca per i ragazzi”.
Ma se erano i tempi in cui lavoravi fuori, come facevi a pensare a un vero e complesso progetto di restauro?
Eh, sì, stavo a Torino e certe cose le preparai anche stando lontano e altre, come la vela, le allestimmo in seguito.
E per il nome?
La barca non aveva nome; volevo farle una polena – siccome era un ibrido fra sciabecco, galera e galeone – mi venne in mente l'idea del castello della Dragonara e di qui la scelta di Dragun. Per la verità molti meriti vanno a Sergio Ferrando che, sulla carta che gli serviva per il suo lavoro nell'agenzia immobiliare gestita dal padre, fece i primi disegni, le prove di coloritura e immaginò la prima polena e lo stemma sulla vela.
Fu un lavoro lungo?
Secondo me durò 6 mesi. Ma vedevamo che prendeva forma, con la scelta di disporvi dentro sei banchi, che faceva dire a qualcuno: “Ma dove vogliono andare?”. E io, in cuor mio, avrei voluto rispondere: in America!
Qualcuno però avrà pur manifestato un interesse positivo?
Sì, Enrico Bassano, il giornalista, che per l'episodio del falò, e dell'äse della tonnara, aveva già scritto un pezzo su di noi. Oppure, se mi ricordo, un signore (noi lo chiamavamo “guagliò”) che una sera ci portò un pacco di pizze per rifocillarci, e mi sembrò uno dei primi segni di simpatia nei nostri confronti. E ancora, quando avevamo preparato una specie di piazzuola, per esaltare la sagoma della barca e venne il mare grosso – un mare lampo, come si dice, e mentre noi cercavamo di salvare lo scafo, legandolo, venne della gente, faccio un nome, mi ricordo di Tony Fondelli, e altri ancora, dandosi da fare, anche con dei sacchi da riempire e addossare attorno all'imbarcazione. Poi il mare si calmò. Ma a me sembrava che finalmente qualcuno a Camogli guardasse con simpatia a quel giocattolo. Insomma cominciava a succedere quello che avevo sperato: che contasse lo spirito dell'uomo e non la sua età! Era la stessa cosa che avevo voluto ottenere anche quando avevo proposto di smetterla con l'idea del falò fatto solo con la raccolta della rumenta. Era la convinzione che il falò di maggio – che mi ricordavo fin dall'infanzia – si dovesse trasformare in uno spettacolo.
Certo queste idee affascinavano anche altri, che già ruotavano intorno a me, da Lucy Senes a Ettore Reati (che allora aveva 13 anni). Ma soprattutto c'era la convinzione di dover fare da soli. E ci fecero credito. Sono arrivato anche ad avere 1.000.000 di debito. Solo i remi costavano 100.000 lire. Ma abbiamo fatto tutto in regola, a cominciare dalla stazzatura, per far scendere la barca in acqua con il benestare del RINA (Registro Navale Italiano). E il Dragun fu stazzato per due tonnellate e intestato a me. Mi ricordo che dissi: “Il Dragun appartiene al mondo – ma se deve avere un padrone – quello sono io”. Per il battesimo, prima del varo, andammo a cercare Don Amos, il curato di Camogli. Bisognava infine dargli anche “vita”: fargli gli occhi. Poi venne il gran giorno – il primo maggio 1969 e c'era una gran folla.
[A me non dispiace che Ido identifichi la data della nascita del Dragun con quella festa, almeno durante la nostra conversazione. È un bell'arrotondamento, ma per la verità essa avvenne qualche giorno prima, come documenta il bell'articolo di Enrico Bassano, un bravo scrittore, di cui mi pare giusto riportare tutto il testo. Ne usciranno tanti sulle gesta del Dragun, nessuno secondo me di questa schiettezza e di questa qualità narrativa. Rileggiamolo].
Intanto l'occhiello:
Costruito da un appassionato nei ritagli di tempo
Poi il titolo:
Naviga nelle acque di Camogli uno sciabecco arabo: u Dragun
E anche il sottotitolo:
Una “ciurma” di volontari: 12 vogatori – il natante decorato con gli stemmi delle antiche Repubbliche Marinare più uno – le vele verranno quando ci saranno i soldi.
E infine il testo:
“Ido Battistone ha vissuto una grande e bella giornata: il suo Dragun è sceso in mare dalla spiaggia “libera” di Camogli, ieri venerdì 25, alle ore 16, presente una folla di gente, nostrana e foresta, letteralmente rapita dal singolare avvenimento. Mentre in alto loco accadono cose turche, ha preso il mare uno “sciabecco” arabo: sogni d'oriente! Alla costruzione del barco che ricorda le navi impiegate dagli arabi nel Settecento, per i mercanti del Medio Oriente, e usate forse per le scorrerie brigantesche anche contro Camogli, il giovane Ido, uomo di fantasia e di cuore, un poeta che la sua poesia la vive giorno per giorno sul mare, sulla spiaggia, tra i suoi modelli di navi sognate, ha lavorato per buoni tre mesi, nelle giornate di festa, nei ritagli del lavoro.
‘Voglio creare – ha detto un giorno Ido – un Museo Marinaro vivo, palpitante, da mandare in giro per il mare. Basta con i modellini, i giocattoli, i bei lavori da tenere sotto la campana di vetro. Voglio fare navi di ogni epoca e paese, come scrivere un trattato d'arte marinara, ma niente di “fermo” niente di raggelato fra le pagine o dietro le vetrine'. Ha cominciato dallo “sciabecco” battezzato u Dragun, a ricordo della lontana favola della Dragonessa, intanata sotto la scogliera della Bardiciocca, sotto il castello della Dragonara, una storia di soprusi (anche allora!) e di ingenue fantasticherie, di autentiche lotte tra camogliesi e predoni algerini. Tre mesi di lavoro, per costruire lo sciabecco da una vecchia e sconquassata barca di salvataggio. Niente interessamenti ufficiali, niente aiuti, niente di niente “dall'alto”. Attorno ad Ido Battistone si è andata radunando una ciurma di volontari, tutti giovani e giovanissimi, ai quali, anziché le proteste, le contestazioni, l'uso di pietre, bastoni e catene contro l'ordine, piace lavorare anche nelle ore di riposo, attorno ad un vecchio scafo per “trarne” un pezzo da museo vivo.
Tre mesi di calafateria, sulla spiaggia “libera”; nascita di un natante incantevole, tra favola e realtà; e ora, un barco in mare, con sei paia di vogatori (le vele si vedranno l'anno prossimo, quando si potranno comprare), dodici remi bianchi e neri, una linea snella, gli stemmi delle Repubbliche Marinare (più uno d'invenzione: quello della Repubblica Camogliese) dipinti sottopoppa, una polena dorata, una lanterna da “mille e una notte” e la bandiera con la croce di Genova e il Dragun in sottofondo.
Cerimonia semplice, spiccia, toccante: la benedizione impartita da Don Amos, vice-parroco, circondato da chierichetti color aragosta, la bottiglia di spumante spezzata giusta dalla madrina signora Battistone e, via, sul mare calmo, in corsa dagli scogli du Zorzo al Castellaro, poi la prua su Recco, per un saluto non polemico, ma semplice e schietto.
Batte il tam-tam, fra le braccia di Ido Battistone capovoga e, a tratti, si dà fiato ad una conchiglia che chiama a raccolta deità marine. S'incurvano i 12 vogatori gagliardi, con una benda bianca sulla fronte, all'algerina. U Dragun naviga e navigherà. Verranno altri barchi storici nei prossimi anni. Ido, poeta senza versi, non è tipo da fermarsi qui”.
(Da Il Cittadino Genova 27 aprile 1969).
[Ribadisco che è molto bello rileggere questo brano, persino nelle sue parti meno accettabili, come la contrapposizione fra le lotte dei giovani di allora (1968-69) e l'attaccamento al lavoro dei ragazzi del Dragun, ma non voglio dimenticare il riferimento con cui Ido, dopo tanti anni, nel ricordare l'episodio, chiude il racconto di quella giornata memorabile].
E passammo dal lato terra della Pria Guea, sotto la rotonda… prova a farlo adesso?
[In effetti ora non sarebbe possibile perché fra la battigia e lo scoglio per raggiungere il quale un tempo era necessario saper nuotare, ormai c'è solo un passo].
Senti Ido, senza voler schematizzare o risistemare la tua vita sul solo parametro del Dragun, bisogna comunque dire che quella data, il 25 aprile 1969, è stata una svolta, un discrimine, una novità profonda.
Beh, dopo il successo e il consenso si avvicinò tanta gente, gente che forse non sapeva dove andare, ma sentiva la novità della proposta. E io d'altra parte, ero già troppo adulto per poter fare il ragazzo (con moglie e figlia). Però si era risvegliato in me il vecchio sogno, quello che Bassano chiama il primato del “vivo” sul “museo”.
È in quel clima che ti metti ad escogitare qualche impresa “fuori dei confini di casa”?
Magari qualcosa di bello l'avevamo fatto anche subito, come andare davanti a Rapallo nelle giornate della loro festa di luglio; la gente guardava e ci veniva anche dietro, forse si era creata anche qualche invidia. Ma bisognava inventare qualcosa di più grande ed impegnativo…
L'idea di navigare sul Po?
L'idea del Po – fino a Venezia, è un'idea senza padri… 17 giorni di spesa sulle spalle di ognuno… anche se poi, alla fine, il Comune di Camogli venne col gonfalone, ma quando eravamo già arrivati a Venezia…. Se penso che passando da Pellestrina, avevamo il San Giorgio sulla vela, ci tirarono delle pietre (chiedilo a Enrico Bancalà, che se lo ricorda ancora), ma poi ci accolsero bene, alla sfilata in Canal Grande; erano 700 anni che non partecipava una barca non veneta! Al ritorno da Venezia avevo l'impressione di aver realizzato un sogno della mia fantasia.
Ma il tuo ruolo, quanto incideva sulla presenza e sulla partecipazione degli altri?
Io senza di loro – loro senza di me – saremmo stati niente.
[Questa è una frase che a Ido piace e la ripete. C'è una componente di sublimazione, quasi di esaltazione nel suo ricordo. Mi viene in mente l'episodio, raccontatomi da Franco Capato, e riconfermatomi in questi giorni da suo fratello Gian Mario, di Ido che a capo del gruppo dei ragazzi di Camogli impegnati a difendere “i colori” in terra di Francia, nell'arena di Orange – durante una puntata televisiva di “Giochi senza frontiere”, in presenza del rischio di essere incornati… da una vacca, urla ai suoi “Se dobbiamo morire… gridate Viva l'Italia e poi quel che sarà”. E Gian Mario una mezza cornata se la prese!].
Ero un capo per consenso e non per imposizione.Ho sempre tenuto il timone, anche se nell'equipaggio c'erano dei… comandanti. Gli altri la sentivano la mia autorità. Erano miei figli, anche prima che venisse con noi Ivan, il mio figlio vero, che poi ha partecipato a due spedizioni. Sono rimasto “il capo”, anche adesso che qualcuno di loro – quelli dei primi equipaggi – ha dei figli a sua volta. E mi piace quando mi chiamano così.
Ma nelle “spedizioni all'estero”, con le lingue come te la cavavi?
Da solo, o con l'aiuto di chi le sapeva. Il tedesco lo conosco. Ho persino frequentato i corsi della Berlitz!
Passando per il richiamo al tedesco, forse vale ancora la pena di ripensare un po' alla personalità di Sybilla?
Credo che mi abbia accettato perché le piacevo. Era una personalità un po' chiusa. Peraltro ha imparato molto bene l'italiano, con facilità e poi ha lavorato in un ufficio. Oggi è rimasta italiana e vive qui. Ma nel 1979 ho conosciuto Roberta. Al ritorno dalla spedizione di Parigi. L'ho vista al Lido e le ho parlato. C'è stato qualche altro incontro. Mi piaceva per vivacità e intelligenza. E per capacità di adattamento.
E il fatto che fosse tanto più giovane?
Sì certo, da principio ci sono state difficoltà con la famiglia di lei. Era gente di Milano che aveva una casa in piazza Schiaffino, sai, dove prima c'era l'ufficio della posta.Insomma: sposato e troppo adulto e con una figlia di 14 anni. Ma io le ho detto “lascia correre il pesce” e poi abbiamo saputo dimostrare la forza delle nostre intenzioni. E oggi… Ivan fa il liceo artistico, è compagno di classe di Laura Adorno, sai, quella ragazza che sta di casa dove abiti anche tu, qua sopra. Adesso fa la stagione lavorando al bar; e all'artistico ci vuole andare anche Maddalena, che ha appena finito la scuola media.
E con la famiglia di Roberta?
Borghesia, padre avvocato, madre professoressa, fratello avvocato. Mio suocero ha 7 anni più di me. In questi ultimi tempi, mi sono stati molto vicini. E il rapporto con la prima figlia, Anja, che ha un aspetto così fiero… almeno io la vedo così. Anja oggi mi viene spesso a cercare. Credo che abbia capito la mia storia, è moglie anche lei, e madre di due figli: Stefano e Francesca. Ci sono state difficoltà, ma mi sembrano superate. È un rapporto che si regge sull'orgoglio della comune appartenenza e anche su una certa somiglianza nelle aspirazioni. Comunque, non ho difficoltà a dirlo, il rapporto con le donne della mia vita mi ha arricchito. Quello che per me è fondamentale, è essere capito nelle mie aspirazioni.
[Senza praticare nessuna logica da “dichiarazioni incrociate”, mi è sembrato giusto e importante lasciare Ido al suo laboratorio, dove passa comunque sempre qualcuno, e scendere in via Garibaldi dove, nel piccolo negozio “La vascellea” Roberta Anderloni sta sistemando, come ogni mattina, l'esposizione delle sue ceramiche e delle maioliche, gradevoli oggetti che attirano la curiosità dei turisti. E ascoltare un po' la quarantaquattrenne di oggi, dal corpo snello e quasi scattante e dal viso netto, come inciso: labbra sottili e naso corto, ma determinante, sotto gli occhi assai espressivi].
Posso dire che venivo a Camogli fin da bambina, ma non lo conoscevo fino a quella volta che si fermò a parlarmi al Lido. Sapevo che faceva dei gozzi. Eppure mi aveva parlato come se ci conoscessimo da sempre. Io semmai, del Dragun, ero più in confidenza – per ragioni di età – con Damiano e con i fratelli Delfino. La mia prima reazione fu di diffidenza. Poi tornò a rivolgermi la parola al bar Primula. Ero con una mia amica e pensavo che volesse rivolgersi a lei. Cominciò così.
Lo hai mai seguito nelle sue imprese?
No, anche se l'ho sempre raggiunto alla fine. Non mi piaceva fare la parte della donna del capo.
[Sono di nuovo nel laboratorio di via Pietro Risso dove quelli che ci vedono, non si stupiscono più di tanto: Ido che racconta e io che prendo appunti].
…Guarda che le avventure del Dragun – quelle che avete deciso di documentare a parte, qui parliamo di me e della mia vita – non sono state un gioco, ma una disciplina, con rischio, e un'esigenza dello spirito. E quando ci penso sento che abbiamo sempre rischiato, anche in momenti in cui l'immagine prevalente per gli altri era quella del facile successo e del divertimento.
È difficile capirlo, se non fai qualche esempio; anch'io faccio parte di quei tanti che vi vedevano sempre vincenti e divertiti, al massimo vi invidiavano per l'idoneità del fisico.
Te lo faccio subito, e anche più di uno… Sull'Hudson, ci siamo venuti a trovare, a un certo punto, in balia delle correnti contrarie, su una barca non da fiume. Per entrare a New York il fiume si stringe, ci sono diversi ponti e aumenta la corrente; nella baia vera e propria eravamo “una pentola che bolle”, essendo noi soltanto un vascello con 40 centimetri di bordo di murata nella vastità di quello spazio, con un gran rischio di capovolgerci. E a Londra, sul Tamigi, davanti al Parlamento, magari per un motivo opposto: corrente favorevole, a 7 nodi. All'altezza del Tower Bridge, la corrente formava due onde, proprio sotto il ponte. Senza accorgercene – passandoci in quelle condizioni – ci saremmo rovesciati.
Ma ebbi – me lo dico da solo – un lampetto di genio: richiamai la ciurma forse distratta dall'eccezionalità della situazione e urlai “pala a prua e voga” e in questo modo abbiamo “bucato” l'onda aumentando la velocità. Diversamente saremmo stati in balia. E comunque anche così, al momento di attraccare, abbiamo dovuto fare delle peripezie.
E anche sul Danubio i problemi non sono mancati. Ricordo, proprio dopo la partenza da Ingolstadt – andammo quasi ad arenarci davanti alla grande mole di un monastero. Mangiammo e intanto il tempo si stava guastando. Viene un buio e una nebbia che non permetteva di vedere niente e noi però continuavamo ad andare e a un certo momento ci si para davanti una roccia. Paura e incertezza sul come procedere. Contavamo sulla presenza dell'auto di scorta che ci raggiungesse all'altezza della riva. Ma siamo andati ugualmente avanti alla cieca, fino all'incontro con Antonio Leverone e alla possibilità di buttargli la cima.
Ma anche per entrare a Vienna – sai quando comincio a ricordare una storia ne tira un'altra – è stato difficile per la forte corrente di traverso e di prora sul Donauer Kanal. Pensavamo fosse facile e invece ci volle uno sforzo incredibile.
Ma anche in Ungheria, quando tutto sembrava già a posto: è salito a bordo un signore con suo figlio (doveva essere ubriaco) e avrebbe dovuto sistemarci lui. Io guardo dove ci porta (ricordo che c'era con me Carlo Pini) e vedo che siamo proprio di fronte a un pilone, all'altezza della città, e fu necessario salvarsi da soli, con molta apprensione.
Poi, certo, ci aspettavano i ricevimenti all'ambasciata, con tanta gente e tante parole, ma le tensioni me le portavo dietro tutte.
Ido, è proprio vero che sai raccontare, ma se passiamo alle verifiche, ai bilanci, che ne dici tu della tua vita…
A me sembra di essere vissuto senza particolari emozioni, forse mi emozionavo tanto quando si preparava il Dragun per le varie uscite e per le grandi spedizioni. Anche fare il falò mi emozionava, ma non pensavo al risarcimento delle lodi e del risultato, quanto piuttosto alla necessità di realizzare l'idea, quella che mi spingeva ogni anno a inventare un tema sempre diverso, e a trasformarlo nella costruzione di una cosa nuova sulla spiaggia. Per quell'obiettivo accettavo anche di andare a fare la questua, anche quando c'erano dei camogliesi che storcevano il naso.
Però certe immagini ti saranno care. Pensa che le ricordo con orgoglio anch'io che mi limitavo ad avvisare i giornali perché mandassero qualcuno a fotografarle. Ti ricordi quella del cavallo di Troia…
Pensa che il cavallo mi venne a costare 2 milioni – di tasca eh! Ma mi sono voluto togliere delle soddisfazioni: una caramella dopo l'altra, finisce che ne vuoi una sempre più dolce. Sempre per quel cavallo lì, ricordo che mi presi un po' con Davide Massone – per il canniccio che doveva servire a fasciare la struttura dell'animale.
“Voi spendete un sacco di milioni a Recco (anche se poi parlavo con un camoglino) e tu mi parli di troppi soldi che vanno per un po' di canniccio?”. Facevo quelle cose perché mi sembrava di soddisfare così ciò che la gente si aspettava da me. Un po' come l'impegno a portare e a far salire di corsa su per le scale della chiesa la Cassa di San Fortunato o quella della Madonna. Sapevo che c'era gente che usciva solo per quello e che non sarebbe venuta senza quello spettacolo.
Ido, che idea ti sei fatto degli uomini?
Che si può uscire dalle righe a ogni minuto. Perciò mi ritengo privilegiato per essere riuscito a vivere così. Anche se tutto quello che ho fatto può stare in un baule. Quello che si fa non è mai sprecato. “Salvarne 10 su 100” è già un bel patrimonio.
Vuoi dire che il tuo è stato un programma di recupero o di prevenzione rispetto al rischio di naufragio nella…
Me l'hanno detto gli altri, e ho finito col crederci anch'io… e poi qualche segnale in effetti l'ho avuto.
Hai avuto qualche maestro anche tu?
No, ho ammirato delle persone, quelle che partecipano alla vita degli altri, quelli che non sono egoisti. Per me anche l'arte è modestia, non esaltazione!
Ti senti religioso?
Mi sentivo religioso, per abitudine e per necessità. E ho sempre tenuto un rapporto di rispetto verso la religione. Detesto quelli che bestemmiano. Però ti dico, al presente, di fronte alle religioni che si uccidono fra loro, vien voglia di stare senza Dio. Mi sento uno che è rimasto a mezz'aria. Te la dico tutta: se è buono spero di incontrarlo, se è “gramo”, meglio lasciarlo stare.
Tornando alla famiglia: ti piace che tuo figlio faccia l'artistico?
Quando lo vedo disegnare mi pare un tecnico. Io la possibilità di studiare gliela do, ma gli ho messo uno sbarramento: quello dei vent'anni. Se a quel momento li non ha combinato niente, è già allo sbando.
Troppo severo. Ma io preferisco continuare ad ascoltarti. Ido, è un momento difficile, anche se non ne abbiamo quasi parlato. Eppure non ti vedo scontento.
Continuo ad avere la mia presunzione di forza. Sono forse più emozionati gli altri. Più che altro è sofferenza quotidiana… ma oggi vado a mettere due persiane. Quando sarò all'80% della guarigione riacquistata, ridurrò il lavoro e lascerò l'alluminio.
Ma io non ti credo.
[Entra di colpo Vio Marciani, con quel suo vocione da… sordo e la conversazione viene interrotta. Ha bisogno di qualche aggeggio di rifinitura e sa che qui lo può trovare o almeno riceverà il consiglio sul modo di procurarselo o di fabbricarlo da solo]
[Ho lasciato passare qualche giorno, ma avevo comunque l'intenzione di concludere il capitolo sull'uomo e il Dragun, andando a cercare Ivan che “fa la stagione”, come mi avevano detto i suoi genitori, allo Xodo bar di via Garibaldi e che trovo finalmente di turno nell'afoso pomeriggio di un sabato estivo. È giovane e bello come un kouros greco. Faccio apposta a dire così, visto che parlo di uno studente del liceo artistico Nicolò Barabino di Genova].
Da bambino avevi la sensazione che tuo padre fosse uno fuori del comune, insomma un po' eccezionale?
Sì, per come si vestiva; braghe tagliate, fazzoletto fuori della tasca, gran mazzo di chiavi attaccate dietro… magari sono cose insignificanti, ma per un bambino contano.
Ma hai cominciato presto a essere… il figlio del capo del Dragun?
Sì, ma solo limitandomi a stare seduto accanto a mio padre che era al timone della barca, mi ricordo, per la prima volta durante la festa della Stella Maris, e poi seguendolo nell'esperienza francese: Bordeaux-Tolosa e l'anno dopo da Tolosa a Marsiglia. Insomma a 13-14 anni.
Con difficoltà nel rapporto col padre-capo…
No, erano esperienze belle, si imparavano molte cose; certo se penso a mio padre… mi sento uno… di fronte a cento…
Non mi pare che tu ti debba misurare con lui?
Sì, capisco, ma volevo dire che certi valori li ho sentiti fin da piccolo… e li rappresentava lui.
Adesso è un momento, così, ma torneresti a fare una spedizione…?
Certamente.
Facendo lo studente, hai già visto un po' di mondo per conto tuo?
Sono stato a Firenze con la scuola e una settimana a Montecarlo e… anche a Strasburgo, con mio padre, ma ero troppo piccolo.
E Maddalena, tua sorella minore, com'è?
Maddalena è più simile al padre, è per questo che… si trovano meno…
Hai già in mente cosa vuoi fare?
Vorrei fare l'Accademia a Milano e poi dedicarmi alla scenografia… vedremo.
Magari stando dai nonni?
Eh, certo.
È un momento complesso, dicevamo e… Non mi capacito nemmeno che stia male, perché lo vedo così forte; forse non è giusto dire così, ma penso che a lui faccia più piacere…
L'uomo, le donne, i figli, il Dragun! |